L’uomo disabitato [IT]
(Linea di confine)
Pensavo di partire giovedì, ma poi non ce l’ho fatta. Sono andata a Kecskemét solo la domenica, troppo tardi. Non ho potuto dirgli addio. Quando sono arrivata, sostavano in quattro vicino al corpo. era una giornata estiva afosa, eppure non aprivano la finestra, come se si fossero sentiti in imbarazzo per l’odore nauseabondo, reso ancora più pesante dal vapore tiepido proveniente dalla cucina.
Lo osservavo intimidita, notavo che i morti si somigliano sin dai primi momenti, figurarsi dopo. Strano, non riesco a rievocare il dolore, né la questione improrogabile che mi ha fatto posticipare il viaggio. Mi ricordo solo il disagio, la goffa impotenza assieme ai parenti commossi e taciturni. Le mani giunte, lo sguardo vuoto, il mio corpo nella posizione di chi sta ascoltando un’orazione, la stessa che avevo da bambina sulla banchina della metropolitana, quando sdraiarono sulla panca una signora anziana morta, dal viso giallo. Era una vecchietta, questo è invece un vecchietto. Ovvero nessuno ormai, solo una casa disabitata, un manichino vuoto: l’anima tornata a casa.
C’erano sessant’anni tra noi due. Quando lo vidi vivo per l’ultima volta, tre settimane prima della tardiva e ultima visita, parlava ormai solo a malapena. Curioso che con la sua decadenza prima inavvertita, poi sempre più veloce anche la casa, il giardino sembravano disfarsi. I centrini stavano sui tavoli come prima, anche la porta d’ingresso, come sempre, era tenuta aperta dal seggiolino dipinto di rosso, eppure qualcosa era cambiato, era diversa la discreta coreografia dell’arrivo e della partenza, il sapore delle pietanze, nelle pieghe metalliche delle posate si depositava la sporcizia, nelle camere aleggiava uno strano odore. Soprattutto nella sua. Giaceva in un letto di acciaio che si poteva tirare su, sotto una coperta a quadretti. Ero sorpresa di vedere quanto fosse piccolo il corpo dai contorni tracciati come schegge, mentre il suo modo di parlare era lento, fiacco, come se le parole avessero perso la loro forma: comunicava quasi soltanto con lo sguardo, con gli occhi divenuti enormi, umidi e luccicanti di azzurro.
– Quanto resta?
Finalmente capivo cosa stava domandando. Non volevo avvicinarmi di più, perché mi disturbava l’odore delle medicine e del borotalco, la schiuma dell’angolo della sua bocca, non volevo vedere da più vicino il cranio che traspariva attraverso la pelle.
– Non posso rimanere -, scossi la testa.
Chiuse gli occhi come se stesse riflettendo sulla risposta. Non ero mai rimasta prima, arrivavo sempre la mattina per ripartire con il treno della sera, non capivo allora, perché lo stesse chiedendo. Come se non sapesse che devo andare via.
Poi all’improvviso alzò lo sguardo e fece cenno di avvicinarmi. Mi sollevai dalla sedia e porsi l’orecchio vicino la sua bocca. Era del tutto inverosimile quello che sentivo. Prima avvertii solo il ritmo della frase, qualcosa come “mi metta la coperta”, ma guardandolo in viso e incrociando i suoi occhi capii che aveva detto esattamente quello che avevo sentito.
Mi dia un bacio.
Ero in piedi in una posizione scomoda, lo sovrastavo mentre lui con una mano, con una forza bramosa e agonizzante stringeva il mio braccio. Mi raddrizzai, allontanai la sua mano e tornai a sedere.
Senza risposta, come se non avessi udito nulla.
C’erano sessant’anni fra noi, sarebbe potuto essere mio nonno. In un certo senso lo era: ascoltavo le sue storie, ammiravo i suoi quadri, gioivo per le sue lodi. Ora invece sedevo spaventata, vergognosa vicino a lui e guardavo fuori dalla finestra. Oh Gesù, cosa vorrà mai. Avevo vent’anni, ero ignorante, una semi-adulta presuntuosa. Non capivo cosa si aspettava, che voleva un bacio d’addio, perché eravamo sulla banchina e lui sarebbe partito dopo pochi minuti, che il bacio non lo voleva da me, donna, ma da un essere vivo; che lui, che si stava preparando alla morte, voleva ricevere un ultimo regalo, qualcosa di meravigliosamente impossibile – e lo voleva proprio da me.
Nel frattempo entrò la zia Edit. Diede dei colpetti al cuscino intorno alla sua testa, tirò più su la coperta, chiese se doveva aprire la finestra. Pupattolo, così chiamava il vecchio, con un nome per me bizzarro anche prima, ma ora decisamente imbarazzante, perché se da moglie lei era la madre di questo malato e di questo piccolo corpo anziano, allora chi mai potevo essere io. Mi sentivo a disagio come se mi avessero colto in flagrante. Sapevo poco sull’appartenere a qualcuno, ancora meno sulle separazioni, o per lo meno troppo poco per immaginare che lei voleva quello che desiderava suo marito, che da molto, moltissimo tempo loro erano la stessa persona in due corpi, solo che l’uno rimane ora a letto, mentre l’altro va nella camera da pranzo a servire il brodo fumante.
Mangiavamo in silenzio. Già alla prima occhiata vidi che c’era un problema. Non osavo però dire nulla, semplicemente non era possibile. Cominciai a sudare in fronte, la nausea mi saliva in gola e provavo a immergere il cucchiaio nel brodo in modo da fare mulinello, per allontanare i piccoli vermi. Non riuscivo, ne rimaneva sempre qualcuno e sarebbe stato imbarazzante toglierli con le dita. Oddio.
– Non ti piace, tesoro?
Mi ricordo solo l’attimo in cui tastavo per trovare la corda dello sciacquone, mentre guardavo nella tazza il deposito giallognolo del calcare e provavo a espellere con il vomito la morte, l’odore delle piante medicinali, quello del brodo di carne e con la fronte poggiata al muro gemevo che va tutto bene, sarà stata l’alzata di buon ora e il viaggio.
Poi sono in un altro bagno, di fronte a uno specchio rotondo, con la cornice bianca, guardo il mio viso più vecchio di quindici anni, mentre abbasso piano l’asciugamano. Ho trentacinque anni, so qualcosa sulla nascita, ancora terribilmente poco sulla morte, almeno ora lo sento così e per questo ho dovuto lavarmi il viso con l’acqua fredda: per non piangere.
E’ morto un amico.
Ha avuto una morte lenta e difficile, era diventato sempre più piccolo, mentre il bambino accanto a me cresceva.
Non scrivere della parte bassa e piccola del corpo, avvolta nel pannolino.
Ora è nella stanza di là, accanto a lui il suo amore, anzi, i suoi amori, stanno seduti tenendogli la mano, gli accarezzano la fronte.. torno al letto matrimoniale, la ragazza alla sinistra sta piangendo. Mi siedo, guardo, sto dicendo addio fra me e me. La ragazza indica, devo toccargli la mano che è fredda, mentre sotto le ascelle è ancora caldo, l’anima si annida là, è lì il suo ultimo rifugio, da lì se ne va per ultimo. E di là a casa. E’ vero, infilo la mano, delicatamente, come se sedessimo intorno a qualcuno che dorme, eppure il corpo dormiente è disabitato, l’anima è tornata a casa. Avevamo la stessa età, sarei potuta essere io, ma io vivo, io sono viva, ho un figlio, ho un figlio, ho un figlio.
Ha quattro anni. Mi accovaccio da lui e ascolto quello che dice. Chiama sempre disabitati i senza tetto. La mattina, quando attraversiamo il sottopassaggio di piazza Lujza Blaha, guarda i corpi sudici, straziati che respirano con affanno sui cartoni. Vedo che è dispiaciuto, non lo trova giusto, anche se lo spettacolo è parte della sua vita, tanto che con Robi, che la mattina fruga nell’immondizia vicino a casa nostra, scambiamo due parole regolarmente.
– Perché disabitato? – domando.
Nel sottopassaggio la folla quasi ci trascina via, lui e me, accovacciata davanti a lui. Pensa.
– Perché non ha un lucchetto – risponde
Capisco. Mi raddrizzo, proseguiamo. Non ha un lucchetto, non ha nulla da chiudere con un lucchetto, non ha una porta, di conseguenza nemmeno una casa che si aprirebbe con la porta inesistente. Non sono sicura che mio figlio la intenda così, ma non ne vuole più parlare, ha messo il lucchetto sulla sua bocca. Pupattolo.
Vediamo Robi tutte le mattine, si dà da fare verso le otto intorno ai contenitori della spazzatura. Robi gira su una sedia a rotelle che porta il più vicino possibile, poi si lancia in avanti, tira su il tetto e reggendosi con le braccia muscolose si tira su dalla sedia. Robi non ha le gambe. Ha delle spalle possenti, si tiene con una mano all’estremità del contenitore, mentre con l’altra rovista all’interno. Quello che trova lo butta fuori e dopo con un bastone fruga nel mucchio per vedere se c’è qualcosa di riutilizzabile. Rimane appeso per un minuto o due, poi salta dentro la sedia di nuovo, gli trema il braccio. Quando si tira su, d’estate a volte si vedono i due moncherini. I pantaloni sono macchiati dietro, si vede che non sempre riesce a scendere in tempo. Una volta d’estate, quando il pulitore ha lavato i raccoglitori, che stavano asciugando con il tetto aperto, dovevo buttare la sabbia del gatto. La sedia a rotelle stava là, ma non vedevo Robi da nessuna parte. Quando mi sporsi mi arretrai all’improvviso per il cattivo odore della condensa. Robi stava in piedi là dentro, anzi, sarebbe stato in piedi se li avesse avuti. Insomma stava dentro e stava sfogliando dei vecchi numeri di Playboy. Per poco non gli buttaii la sabbia in testa. Gli domandai spaventata cosa stesse facendo là dentro e lui, con la voce più naturale e senza nemmeno alzare lo sguardo mi rispose che stava leggendo. Riuscirà a uscire? – gli domandai. Mi gettò un’occhiata di tale disprezzo da farmi diventare rossa, soprattutto perché, anche se lui non poteva intuire, stavo pensando di scattargli rapidamente una foto: Uomo senza gambe nel cassonetto dell’immondizia. Ci si potrebbe anche abitare, aggiunse, mentre riprese a leggere Mi immaginavo: un lucchetto al cassonetto.
Tutto questo è successo d’estate, ora è autunno, fa fresco e il marciapiede è coperto di foglie.
Guardo la ruota della sedia, da ieri c’è stato un cambiamento. Robi ha legato sui raggi dei pezzi di lacci delle scarpe colorati, verde neon e pink, camminando si fondono in una striscia colorata. Gli deve essere costato molta fatica, ma ne è valsa la pena. A mio figlio piace molto, fa ciao con la mano a lungo. Lo saluto anch’io e nel frattempo penso al viso di Robi, al suo colorito: perché mi ricorda tanto qualcuno. O meglio, qualcosa. Si, ecco, il vecchio corpo morto, il cranio giallo. Il viso di Robi somiglia a un cranio, morirà presto – sicuramente prima dell’arrivo dell’inverno.
Venerdì devo andare a Kecskemét. Da quando è morto il Vecchio non ci sono più stata. Sul treno però ho la sensazione di andare da lui. Il paesaggio è autunnale, con corvi in volo, la nebbia fluttua sopra la terra arida. Osservando le varietà del marrone e del grigio e il vortice di fumo denso di origine sconosciuta medito su dove è il confine, se c’è una linea di confine fra la vita e la non vita, la vita e la morte, se c’è una linea da poter determinare; rifletto sui vivi e sui morti, sul fatto di non aver imparato nulla, di essere diventata solo più vecchia anno dopo anno e dov’è finito il mio orgoglio, cosa è rimasto al suo posto, che cosa è quello che non è cambiato e per il quale nemmeno ora bacerei colui che parte per l’ultimo viaggio.
Al ritorno perdo il treno del pomeriggio, devo aspettare per ore. Passeggio nel parco accanto la stazione e mi siedo su una delle panchine del parco giochi. Un padre infreddolito, probabilmente della domenica, sorveglia suo figlio in tuta che trasporta instancabile della ghiaia sullo scivolo. Il padre interviene ogni tanto con brevi frasi di comando per dirgli di non continuare, ma il bambino – avrà l’età del mio – non gli bada nemmeno. L’uomo si gira, sta fumando, circonda con il dorso arrossato della mano la sigaretta. Ho freddo.
Il bambino si stanca del gioco con lo scivolo, si infila in un tubo colorato, inventato per bambini più piccoli di lui, vi passa un po’ di tempo, poi esce. Dalla sua mano pende un tampone, lo fa vedere a suo padre. Il padre lo getta via irritato e si avviano verso casa.
Entro nella sala d’attesa con i mosaici, perché sta calando il buio, fa freddo e c’è da aspettare ancora molto per il treno. Mi siedo su una panchina, qui almeno c’è il riscaldamento, guardo le pubblicità. Arriva trascinandosi un senzatetto con la stampella, va al secchio dell’immondizia verniciato di bianco che sta nell’angolo e lo fissa a lungo. Sul lato della pattumiera c’è una scritta fresca, sagomata e dipinta di blu: Siamo in Europa, rispetti l’ordine e la pulizia. Il senzatetto tira giù la lampo e vi urina dentro, in parte per terra. Poi si allontana zoppicando, si sdraia nell’angolo su una panchina, si raggomitola e si addormenta.
Sento ancora molto freddo, pian piano comincio a invidiarlo, mi allungo sulla panchina e sonnecchio con la borsa sotto la testa, infilando la mano infreddolita sotto l’ascella: è il punto più caldo. Il tempo non passa, non ho voglia di leggere, sono stanca. Siamo sdraiati da una decina di minuti quando entra un addetto alle ferrovie con una busta di plastica in mano. Scruta con attenzione in giro, poi spegne il neon.
Si vede che qui non c’è nessuno.
Traduzione di Andrea Rényi
Roma, maggio 2007